A cura di: Eleonora Morini
Quanto ci costa l’inattivita' fisica?
Autore: D Ding et allGli autori hanno raccolto i dati inerenti l’anno 2013 di 142 Nazioni, riguardanti il 93% circa della popolazione mondiale, analizzando i quali è emerso che:
- i costi diretti, cioè quelli legati alle spese sanitarie per patologie direttamente correlate alla sedentarietà (malattia coronarica, diabete mellito tipo 2, ictus, tumore del colon e del seno) sono stati di $ 53,8 miliardi, di cui più della metà a carico dei sistemi sanitari nazionali, il rimanente a carico del settore privato e delle famiglie stesse, in egual misura. La malattia più cara in termini di costi diretti è il diabete, che nel 2013 ha assorbito ben 37,6 miliardi di dollari;
- i costi indiretti, legati cioè alla perdita di produttività, ammontano a $ 13,7 miliardi;
- i costi legati alla disabilità, il peggioramento della qualità della vita e la morte prematura sono stati di $ 13,4 miliardi
- l'impatto economico dell'inattività fisica era distribuito in modo uniforme tra le diverse regioni del mondo, ma in proporzione, nei paesi ricchi era soprattutto legato ai costi delle cure, mentre nei paesi poveri era dovuto principalmente alla disabilità e mortalità precoce, per la minore possibilità di accesso alle cure.
Per cercare di capire l’entità del problema basti pensare che il costo complessivo calcolato è pari a 67,5 miliardi di dollari, che corrisponde al prodotto interno lordo, dello stesso anno, di nazioni come il Costa Rica.
Quindi oltre a morbilità e mortalità prematura, l’inattività fisica è responsabile di un enorme onere economico. I diversi governi dovrebbero assolutamente tenerne conto, investendo fondi adeguati a promuovere l’attività fisica. Ciò è soprattutto importante in vista della crescente necessità di ridurre i costi della sanità a fronte dell’alta prevalenza delle malattie non trasmissibili che dell’attività fisica beneficiano grandemente.
The economic burden of physical inactivity: a global analysis
of major non-communicable diseases,D Ding et al, “The Lancet”, settembre 2016
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