Una volta gli Inglesi venivano a studiare medicina in Italia. Si puo' tornare indietro?
Sembra impossibile, ma gli Inglesi che di biologia e medicina sono maestri, la medicina l’hanno imparata da noi. Fa una certa impressione leggere nel «Lancet» del 1861 che «il debito dell'Inghilterra verso l'Italia è incalcolabile». Poi però si è perso tutto. In occasione della morte di Cavour, il Lancet, il New England Journal of Medicine e il British Medical Journal espressero sdegno e sorpresa per com’era stato mal curato un uomo reputato, dal mondo anglosassone, un eroe della libertà, dall'intelletto sagace, che sapeva di scienza e ne capiva il valore.
Cosa si rimprovera ai nostri medici? Di non saper osservare il corso naturale delle malattie e di non aver imparato che prima di agire serve capire. Infatti, mentre nel XIX secolo in Europa la scienza medica procedeva sulla via tracciata da Morgagni, in Italia il pensiero medico sprofondava nelle sabbie mobili dell’ignoranza. Le conseguenze di quel periodo si sono fatte sentire.
Dal 1930 al 1960 in medicina è successo di tutto. La scoperta del primo sulfamidico, dell’anestetico pentothal (e la conseguente esplosione della chirurgia), la scoperta della struttura del DNA, dei vaccini, i primi tentativi di dialisi e d’interventi a cuore aperto. Qual è stato il contributo degli Italiani? Quasi nessuno, con due importanti eccezioni: la scoperta della rifampicina, un farmaco antitubercolare dei laboratori Lepetit nel 1959 e del primo farmaco anticancro nel 1960, di Farmitalia Carlo Erba, poi più nulla. Sempre, prima delle elezioni, si promette che ci saranno più soldi per la ricerca che si riformeranno le università, che i ricercatori e i medici migliori potranno avere una carriera accademica anche da noi. Tutte promesse che svaniscono qualche settimana dopo, c'è sempre qualcosa di più urgente. Così abbiamo meno ricercatori degli Stati Uniti, del Giappone e d’Europa e investiamo in ricerca un terzo di quello che investono questi Paesi. Ma oggi l’Italia ha scienziati di primordine in tutte le discipline. Siamo all’ottavo posto per quanto i nostri lavori sono citati dagli altri e secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, almeno fino a qualche anno fa, eravamo secondi solo alla Francia per prestazioni del Servizio Sanitario.
Il Lancet riconosce che in qualunque campo della medicina l’Italia ha gruppi tra i migliori al mondo ed è così per biologia, matematica, fisica. Abbiamo saputo rallentare la progressione delle malattie renali al punto che oggi il 60% degli ammalati non ha più bisogno di dialisi. Siamo all’avanguardia nei trapianti di organo, malattie rare, terapia genica per alcune malattie pediatriche. Dobbiamo convincerci che è venuto il momento di tornare a essere com’eravamo quando gli Inglesi imparavano la medicina da noi e ce ne dobbiamo convincere tutti, i politici, la gente comune, gli scienziati e i medici che non possono più restare in silenzio, lasciando che siano altri ad occuparsi di sanità. E non possono più pensare di meritare la fiducia del pubblico e il supporto dei governi se non si mettono in gioco e non partecipano al dibattito sulla società che vorrebbero, nell’interesse dei più deboli e dei più poveri.
Autore: Giuseppe Remuzzi
Giuseppe Remuzzi è Direttore del Dipartimento di Medicina degli Ospedali Riuniti di Bergamo e coordina le attività di ricerca delle sedi di Bergamo dell’Istituto Mario Negri e del Centro di Ricerche Cliniche per le Malattie Rare. E’ membro del “Gruppo 2003” che annovera gli scienziati italiani più citati dalla letteratura scientifica ed ha ricevuto nel 2007 il “John P. Peters Award”, il più prestigioso premio nel campo della nefrologia internazionale. E’ Commendatore della Repubblica per meriti scientifici ed editorialista del Corriere della Sera.
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