Uso dei test genetici per la predizione di malattie comuni a largo impatto sociale

Negli ultimi anni sono stati identificati molti marcatori genetici (si chiamano polimorfismi e sono nient’altro che piccole differenze inter-individuali nella sequenza del nostro genoma) che si associano a tante malattie comuni a larghissimo impatto sociale quali il diabete, l’infarto del miocardio, l’obesità, l’ipertensione, l’osteoporosi, etc. Ciò ha fatto ipotizzare che questi marcatori siano utilizzabili per predire il rischio di sviluppare le malattie cui sono associati facendo intravedere, conseguentemente, la possibilità di notevoli guadagni tramite la commercializzazione di test predittivi. In effetti, approfittando della quasi totale mancanza di regole e leggi al riguardo, questi test sono già oggi disponibili su richiesta diretta dell’interessato, senza l’intervento del medico.

In effetti, la possibilità di test genetici che predicano malattie comuni è di notevole interesse perché, al contrario dei marcatori clinici che si evidenziano solo nel tempo (per esempio, l’elevata concentrazione di colesterolo nel sangue che predice un possibile infarto non è presente quasi mai da adolescenti e si manifesta solo da adulti), i marcatori genetici sono lì dalla nascita. Ciò permetterebbe di predire la malattia tramite i test genetici con decadi di anticipo rendendo, così, possibile anche l’implementazione di strategie preventive molto precoci.

Ma, come abbiamo recentemente ricordato (http://www.fivehundredwords.it/post/it-quando-un-test-merita-di-diventare-diagnostico), perché un test meriti di entrare nella pratica clinica è indispensabile che abbia un adeguato potere predittivo e/o che aggiunga un miglioramento significativo ai test già in uso. E qui casca l’asino perché tutti gli studi finora effettuati, immancabilmente, hanno dimostrato che i test genetici, se considerati da soli, non sono sufficientemente accurati nella predizione della malattia e che l’aggiunta delle informazioni da essi derivanti non migliora significativamente la predizione che già oggi effettuiamo con l’uso contemporaneo di diversi marcatori non genetici facili da ottenere ed economici.  Sulla base di questi risultati, alcune agenzie regolatorie e società scientifiche americane, europee ed anche italiane si sono espresse contro l’uso di questi test genetici. Tuttavia, in assenza di una precisa legislazione, la loro richiesta sta grandemente prosperando facendo leva sulla facilità di esecuzione (non c’è neanche bisogno di muoversi da casa: si acquista un kit online e, ricevutolo, si spedisce per posta una provetta con un po’ di saliva o di mucosa buccale al laboratorio) e sulla creduloneria di una società che richiede sempre più prestazioni sanitarie senza, però, voler faticare per informarsi ed acquisire conoscenza.  Ma gioca un ruolo anche la sciatteria intellettuale, quando non c’è di peggio, di alcuni specialisti del settore, a volte anche importanti ricercatori, che assumono posizioni pilatesche ed elusive nei confronti di questa faccenda. E non è una giustificazione che il costo di questi test (nell’ordine di diverse centinaia di Euro) non pesi sul sistema sanitario nazionale, ma sia direttamente a carico del paziente. Sono comunque soldi spesi inutilmente senza considerare la frustrazione e il senso di discriminazione sociale che può ingenerarsi nel caso in cui non si abbia la disponibilità economica per usufruire di test ritenuti, erroneamente, utili.

Autore: Vincenzo Trischitta

 
 

Vincenzo Trischitta insegna Endocrinologia all’Università Sapienza di Roma e dirige un gruppo di ricerca sulla genetica e l’epidemiologia del diabete e delle sue complicanze cardiovascolari presso l’Istituto Scientifico Casa Sollievo della Sofferenza tra Roma e San Giovanni Rotondo. E’ tra i fondatori, nel 2019, del Patto Trasversale per la Scienza. Attribuisce agli scienziati il dovere della divulgazione e della informazione per una società più consapevole e più libera.

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