Conflitti fra diritti e doveri in ambito di salute e sanita'. Il medico chiede, il giurista risponde.

Introduzione

 
Le domande vertono su 4 potenziali conflitti:
1. Fra diritti costituzionalmente garanti.
2. Fra legittime esigenze diverse nell'entrata in commercio di un nuovo farmaco: velocità e sicurezza sono in contrasto?
3. Nel campo dell'informazione quando nel trattare argomenti non semplici si rischia di creare fraintendimenti socialmente pericolosi.
4. E infine, un classico: fra libertà individuale e responsabilità verso gli altri. 
Pur se le domande prendono spunto da considerazioni legate all'epidemia che viviamo, esse affrontano tematiche di carattere generale. 

 
 

 
 
 



 











 
 
 

Conflitto fra diritti costituzionalmente garantiti

Vincenzo Trischitta (VT) – Caro Luciano, come sai, sono un medico ed un ricercatore, non uomo di diritto e mentre capisco la Corte Costituzionale quando dice che “nessun diritto può essere tiranno verso altri diritti costituzionalmente garantiti (sentenza n. 85/2013) (ne abbiamo già parlato su http://www.fivehundredwords.it/argument/it-salute-o-lavoro), resto scettico davanti all’idea che, tra i diritti garantiti, non ce ne siano alcuni più importanti di altri. Ma neanche il diritto alla salute ha la precedenza su altri? E’ davvero sbagliato immaginare che, nel tentare di fare la migliore sintesi possibile fra diritti diversi, quello di salvaguardare la salute (e, in certi casi, la vita) debba avere un peso specifico maggiore di altri diritti essenziali come quelli al perseguimento del benessere economico o alla libertà di movimento (tanto per stare in tema COVID-19)? Senza arrivare a parlare del rischio di morte (che pure ce la siamo visti sbattere in faccia dalle recenti cronache), come faccio a perseguire il benessere economico o come faccio a muovermi senza salute? Non ha ragione Schopenhauer quando dice “La salute non è tutto, ma senza salute tutto è niente”?

Luciano Butti (LB) Caro Vincenzo, Schopenauer ha sempre ragione, per definizione. Infatti, il diritto alla salute viene considerato come “fondamentale” dall’art. 32 della Costituzione. I diritti economici – compreso quello al lavoro (!) – non godono dello stesso onore. Quindi la risposta è SI, la salute è più importante dei diritti economici, anche secondo la Costituzione. Però anche Schopenauer risentiva di un abbaglio comune nei filosofi, quello di pensare che le cose (“gli enti”) sono o non sono. La salute, per esempio, c’è o non c’è, è tutelata o non è tutelata. Non è così, nella vita reale. La tutela di ogni valore si realizza sempre fino a un certo livello. C’è poi una cosa da considerare: si chiama “effetto galleria – “tunnel vision” - e ne ha parlato per primo S. Breyer, giudice della Corte Suprema americana, in un bellissimo piccolo libro (The vicious circle. Yale University Press). Si tratta di questo: più siamo avanti nel tutelare un valore, più ulteriori progressi “costano” in termini di sacrificio di altri valori. Quindi un bilanciamento si impone, anche fra salute ed economia. C’è per la verità un solo valore che “in nessun caso” (art. 32) la legge può limitare: è il “rispetto per la persona umana” (dignità della persona), che – singolarmente – può essere compromesso sia dall’assenza di salute che dalla povertà assoluta (e anche da tante altre cose).

Disponibilita' di nuovi trattamenti - Conflitto fra legittime esigenze diverse

VT - Come muoversi fra la necessità di accorciare i tempi di disponibilità di un nuovo presidio medico (farmaco, vaccino, etc.) e quella di verificarne la sicurezza? Come risolvere il dilemma fra speed and safety, come dicono gli anglosassoni? Vale sempre il principio del “primum non nocere”? Se si, dovrebbe venire prima la sicurezza ma è ciò che, in realtà, il diritto suggerisce?

LB - Il diritto – il buon diritto – si astiene dal rispondere in via autonoma a questa domanda. Infatti, secondo la Corte costituzionale (v. per esempio sentenza n. 116/2006), il legislatore, nelle materie di stretta rilevanza scientifica, deve basarsi sulle migliori indicazioni degli organi tecnico-scientifici dello Stato o internazionali. Pertanto, la soluzione del dilemma fra speed e safety non può che essere affidata agli organismi tecnico-scientifici pubblici. E’ evidente che l’algoritmo di ‘mediazione’ tra speed e safety dovrà tener conto, da un lato, degli effetti attesi dal vaccino, dall’altro, dei problemi di sicurezza possibili (quali emergono, in entrambi i casi, dalle fasi di sperimentazione già concluse). Il tutto, ovviamente, in un’ottica di ragionevolezza (art. 3 della Costituzione) e non in un’ottica di ‘rischio zero’, non realistica. La buona politica deve (dovrebbe) astenersi dall’esercitare pressioni indebite. E la buona scienza non deve (non dovrebbe) ascoltarle.

VT – Sante parole! E a proposito di buona scienza ben comunicata, consiglio di ascoltare le risposte sulla sicurezza dei vaccini anti Covid-19 che Antony Fauci da alla direttrice dello Hasting Center, un’organizzazione non profit che si occupa di aspetti etici che riguardano la salute, la scienza e la tecnologia (https://www.thehastingscenter.org/news/fauci-on-public-trust/).

Conflitto tra il diritto/dovere di informazione e la responsabilita' di fraintendimento socialmente pericoloso

VT - Vi sono informazioni che per quanto vere hanno alte probabilità di essere fraintese da un pubblico non specialistico e quindi di diventare veicolo di preoccupazione sociale. Per esempio, se dico “nel paese X, dove non c’è stato lockdown, i morti sono stati meno che in Italia”, è pacifico che la gran parte della popolazione - cui sfugge che la semplice associazione fra due fenomeni non garantisce che siano in rapporto di causa-effetto - capirà che sarebbe stato meglio non effettuare il lockdown. In effetti, questa è solo una della possibilità teoriche (pur se davvero molto poco probabile) e ve ne sono molte altre che qui per brevità non prendiamo in esame. Come muoversi in questi casi? Immagino che la risposta più immediata sia “fornisci l’informazione spiegando che il dato riportato non significa necessariamente che sarebbe stato meglio non effettuare il lockdown”. Tuttavia, sappiamo che anche inserendo tutti i possibili distinguo e tentando di spiegare la differenza fra associazione e rapporto causale, è molto probabile che il messaggio che più passerà sarà quello di un effetto negativo del lockdown. In sintesi, o ledo il diritto/dovere di informare o rischio di creare un fraintendimento con pericolosi risvolti sociali. Si deve soppesare questo rischio? Sono due mali entrambi, scelgo il minore?

LB - Io penso che sia quasi sempre possibile informare bene e in modo ragionevolmente semplice. E d’altra parte non c’è alternativa: le informazioni sui dati passano, l’unica strada è cercare di spiegarle in modo corretto (indicando anche i limiti di ciò che possiamo capire) Prendo il tuo esempio. Come tu giustamente scrivi (sintetizzo e rendo più specifico): Se dico “in Svezia, dove non c’è stato lockdown, i morti sono stati meno che in Italia, dove il Governo ha imposto lockdown”, è pacifico che la gran parte di chi ascolta  cui sfugge che la semplice associazione fra due fenomeni non garantisce che siano in rapporto di causa-effetto - capirà che sarebbe stato meglio non effettuare il lockdown.  Allo stesso modo (questa è una mia aggiunta): Se dico “in Svezia, dove non c’è stato lockdown, i morti sono stati più che in Norvegia o Danimarca, Paesi vicini dove il Governo ha imposto lockdown”, è pacifico che la gran parte di chi ascolta - cui sfugge che la semplice associazione fra due fenomeni non garantisce che siano in rapporto di causa-effetto - capirà che sarebbe stato meglio effettuare il lockdown. Però potrei dire “In Europa alcuni Governi hanno imposto lockdown vincolante, altri no. E’ ragionevole ritenere che l’imposizione di lockdown possa aver contribuito a diminuire i contagi, e conseguentemente i decessi. L’esame dei dati mostra peraltro che – nella corrente pandemia (ed in particolare nella prima ondata, che già possiamo studiare) – i fattori che influiscono sui decessi sono molteplici: il livello delle restrizioni imposte dai Governi (lockdown), il tasso di adesione dei cittadini alle semplici raccomandazioni dei governanti; l’efficienza dei sistemi ospedalieri e soprattutto delle cure a domicilio; l’efficienza dei sistemi di tracciamento; una efficiente organizzazione della protezione degli anziani in abitazione e nelle RSA (da sole purtroppo sede, in molti paesi, di una quota rilevantissima dei decessi); il ruolo della ‘pandemic fatigue’; ecc. Pertanto, il confronto fra i decessi dei vari Paesi non può essere effettuato tenendo conto di un solo fattore. Solo a titolo di esempio, vi sono Paesi, come la Svezia, che non hanno imposto lockdown e mostrano meno decessi dell’Italia (che invece ha imposto lockdown), ma hanno molti più decessi di Paesi vicini, come Norvegia e Danimarca, che pure hanno imposto lockdown. La verità è che, mentre è del tutto ragionevole ritenere che il lockdown abbia aiutato a ridurre i decessi, non sappiamo ancora quanto abbia aiutato, in relazione anche al contributo degli altri fattori”. Per fortuna, quando mandiamo una parte dei nostri giovani a studiare statistica (disciplina importantissima e sottovalutata!), essi imparano ad analizzare ed interpretare meglio i dati. Sono cose complesse, ma possiamo fidarci del fatto che, dando loro un po' di tempo e le risorse necessarie per la ricerca, gli statistici possano portare avanti indagini raffinate, che ci mostrino in modo più preciso l’efficacia di ciascuno dei fattori di contrasto al virus sopra elencati. Le stesse tecniche statistiche potranno aiutare a capire se e quanto i Paesi che non hanno imposto lockdown (come la Svezia) abbiano grazie a ciò ridotto l’impatto della pandemia sull’economia e sulla povertà (anche su questo vi sono dati non univoci, che vanno studiati con attenzione)”.

VT - Come potrei non essere d’accordo con te sul fatto che si tratta “semplicemente” di…fare della buona informazione? Ma hai visto quanto spazio ti è servito per chiarire il concetto? Non sono sicuro che la richiesta, per certi versi esasperante, di concisione e rapidità oggi imperante nella nostra società renda facilmente perseguibile questo approccio in ogni contesto. Riformulo allora la domanda, specificandola “in assenza di spazi comunicativi che permettano riflessioni ben ponderate (per esempio, sui social) può succedere che ci si trovi davanti al bivio tra ledere il diritto/dovere di informare e rischiare un fraintendimento con pericolosi risvolti sociali. Si deve soppesare questo rischio? Sono due mali entrambi, scelgo il minore?”.

LB - Hai ragione, Vincenzo, è molto complicato proporre una informazione corretta e allo stesso tempo semplice. Una vera “fatica di Sisifo”. Scegliere il male minore, in astratto, pare anche a me una opzione convincente. Diventa però molto complesso in situazioni nelle quali – come accade per la pandemia - i valori e gli interessi in conflitto (e perciò anche i ‘mali minori’ tra cui scegliere) sono diversi e spesso contrastanti. Per esempio, una famiglia con i due genitori dipendenti pubblici accetterà volentieri il ‘male minore’ di una informazione semplificata in senso ‘catastrofista’: magari convincerà le persone a stare più in casa, e pazienza se diverse imprese falliscono. Invece, una famiglia di ‘partite IVA’, convinte che i sussidi di uno Stato già fortemente indebitato non potranno durare a lungo, accetterà volentieri il ‘male minore’ di una informazione semplificata in senso ‘ottimista’: magari questo salverà dal fallimento un po’ di imprese, e pazienza per i dati del contagio. In fondo, mandiamo i nostri ragazzi a scuola – e dovremmo sostenere in ogni modo le scuole, anche in questo periodo difficile – proprio perché le generazioni di domani siano meglio in grado di comprendere una informazione oggettiva, anche se non del tutto semplice.

VT - Diciamo allora che, nel frattempo che crescono generazioni più colte, nel caso si ponga il dubbio della scelta, sta a chi comunica scegliere il male minore, ognuno con le proprie sensibilità e convinzioni ma tutti, sperabilmente, con equilibrio.

Conflitto fra liberta' individuale e responsabilita' verso la propria comunita'

VT - Da medico ho visto migliaia di persone che, per i motivi più svariati, non assumono comportamenti utili per la loro salute e che così facendo diventano dannosi anche per la società in cui vivono, soprattutto se - come nel caso del nostro Paese - la cura della salute è gratuita per tutti. L’esempio più evidente è il fumo di sigaretta: fumo, mi ammalo (oltre che aumentare il rischio che altri - i più giovani del mio network - mi emulino, ammalandosi anch’essi e oltre che danneggiare gli altri col fumo passivo) e vengo curato a spese dalla comunità. In altre parole faccio del danno a me stesso ed agli altri. Questo atteggiamento va in qualche maniera biasimato e contrastato? Per stare alla cronaca, è giusto che, in tempi di pandemia le Istituzioni richiamino alla responsabilità individuale tutti cittadini sottolineandone il ruolo attivo nella lotta alla circolazione del virus? Dobbiamo essere considerati tutti socialmente responsabili? Esiste, in punta di principio, questo tipo di responsabilità (la chiamerei responsabilità verso la propria comunità), anche se non esistono corrispettivi di ordine legale?

LB - Quella che tu, Vincenzo, efficacemente chiami “responsabilità verso la propria comunità” trova spazio solenne nell’art. 2 della Costituzione: “La Repubblica … richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. In parole meno formali, si tratta del famoso invito rivolto da J.F.K. ai cittadini USA: “Ask not what your country can do for you, ask what you can do for your country”. A dimostrazione di come, nel mondo anglosassone, l’insistenza sulla responsabilità collettiva sia (almeno in certi periodi) politicamente trasversale, si può ricordare l’analogo concetto di “big society” che era caro al leader conservatore inglese John Cameron. Fin qui, sembra tutto bello e tutto facile. La parte difficile arriva quando ci si chiede cosa si debba fare verso i cittadini la cui condotta non risponde a questi criteri. Sono gli esempi, che tu porti, del fumo, o dei comportamenti irresponsabili durante la pandemia. Ed altri esempi sono certamente possibili, a partire dall’uso eccessivo di bevande alcooliche. L’istinto più immediato del cittadino virtuoso diviene quello di vietare, sanzionare, addirittura precludere o rendere costose le future cure che il comportamento irresponsabile possa rendere necessarie. Di qui allo ‘Stato etico’, tuttavia, la strada potrebbe non essere lunga. E per la nostra Costituzione le cure salva-vita non possono essere a pagamento: nemmeno se è stato il paziente a mettersi volontariamente nei guai. Escludendo, per un momento, l’esempio della pandemia (che mi appare diverso da tutti gli altri) a me pare che – pur occorrendo in alcuni casi divieti e sanzioni (es: fumo nei locali pubblici) – in generale sia preferibile una strategia di “Nudging” (la cd. “spinta gentile” – o ‘paternalismo libertario’ - teorizzata dal premio Nobel per l’Economia Thaler, insieme allo studioso liberale americano Sunstein). Bisogna trovare strategie brillanti per rendere più scomodo, meno ‘cool’, anche più costoso, seguire comportamenti non virtuosi. Non obblighi, e nemmeno irresponsabilità ignorata dalle Istituzioni. Ma Istituzioni che cercano il giusto mezzo: si, proprio quello che piaceva al vecchio Aristotele.

VT - Molto interessante perché sottolinea l’importanza di avere Istituzioni che non siano solo deputate ad organizzare la nostra società ma anche a guidarle, svolgendo funzioni di vera leadership. Voglio essere provocatorio: tra le strategie cui fai riferimento, pensi che le Istituzioni - per scoraggiare comportamenti irresponsabili - possano anche giovarsi dell’arma dello stigma? Magari uno “stigma gentile” esercitato non nei confronti del singolo ma di gruppi di individui? Sarebbe troppo? 

LB - Mi sembra che, durante la corrente pandemia, l’arma dello ‘stigma’ – più o meno gentile – venga già abbondantemente utilizzata (lo scrivo come mera constatazione, sospendendo ogni giudizio al riguardo): basti pensare ai numerosi video veicolati in rete, persino da Governatori di regione, per mostrare cittadini che si divertono, peraltro talora in modo effettivamente e gravemente irresponsabile. Una delle mie figlie è antropologa, e lavora in programmi per adolescenti che vivono ‘al margine’. Mi ha spiegato che lo stigma, usato come arma educativa nei contesti da lei studiati, non è efficace per prevenire comportamenti a rischio.  Non so quanto questa constatazione sia generalizzabile, ma osservo una cosa: lo stigma attraverso il quale coloriamo i comportamenti altrui risente troppo spesso delle emozioni e della provenienza di chi usa questo strumento. Mi spiego con un esempio: tutti possiamo razionalmente convenire, credo, che il fumo e il consumo significativo (anche se non smodato) di alcool siano comportamenti a rischio, sia per le singole persone che per i costi scaricati sul sistema sanitario. Eppure, mentre lo stigma verso chi fuma è in crescita (come, recentemente, quello verso chi è obeso), lo stigma verso chi beve in abbondanza certamente non lo è. Anzi, bere è ancora considerato molto ‘cool’ quasi in ogni ambiente, alla sola condizione che non ci si ubriachi del tutto, divenendo nell’immediato sgradevoli e pericolosi. Perché? (Lascio aperta la domanda). Insomma, dello stigma non mi fido. Preferisco le spiegazioni pazienti attraverso i numeri, che – come invece mi insegna l’altra mia figlia matematica – non tradiscono (quasi) mai.

VT - Grazie Luciano, speriamo di essere stati utili.

Autore: Vincenzo Trischitta

 
 

Vincenzo Trischitta insegna Endocrinologia all’Università Sapienza di Roma e dirige un gruppo di ricerca sulla genetica e l’epidemiologia del diabete e delle sue complicanze cardiovascolari presso l’Istituto Scientifico Casa Sollievo della Sofferenza tra Roma e San Giovanni Rotondo. E’ tra i fondatori, nel 2019, del Patto Trasversale per la Scienza. Attribuisce agli scienziati il dovere della divulgazione e della informazione per una società più consapevole e più libera.

Autore: Luciano Butti

Luciano Butti, avvocato, insegna diritto internazionale dell'ambiente all'Università di Padova. In passato è stato magistrato per 13 anni e, nel 2007, Visiting Scholar presso l'Università di Cambridge e il Clare Hall College. Si occupa da sempre dei legami fra diritto, scienza e nuove tecnologie, tanto in pubblicazioni accademiche che nella divulgazione.Ritiene che, sempre nel rispetto dei diversi ruoli, occorra 'più scienza' nelle decisioni dei giudici e della politica.

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